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[personal profile] kurecchi

Fandom: Donten ni Warau

Personaggi: Kagami Naoto, Chuutarou Kumou (Altri)

Rating: NSFW

Parole: Inserisci

Prompt: Surrender

Capitolo: 1 di 2

Note:

  1. WARNING! PRESENTE GANG-RAPE!

 


La notizia si era sparsa velocemente per tutta la prefettura di Shiga. C'era chi parlava di una carneficina, chi invece di una fuga ed altri di una resa spontanea, ma la conclusione di ogni storia, inventata o meno, era sempre la stessa: Kagami Naoto era stato catturato.

Da anni quel nome non veniva pronunciato nella prefettura ma, come una ferita ancora fresca, era bastato il solo ricordo di quell’uomo a far riaffiorare sanguinosi ricordi nelle menti di tutti gli abitanti di quella zona. I più ingenui e speranzosi lo avevano dato per morto dopo gli eventi contro Orochi, mentre altri, forse i più realisti, avevano semplicemente sostenuto che Kagami avesse cambiato prefettura e che fosse così lontano da non poter più nuocere a nessuno. E indistintamente da quei pensieri, tutti avevano tirato un sospiro di sollievo nel saperlo finalmente nelle mani della giustizia, e soprattutto per il fatto che da lì a poche ore avrebbe attraversato il Lago Biwa per un viaggio di sola andata.

La notizia era ovviamente arrivata anche al Tempio della famiglia Kumou e con essa anche una sorta di inquietudine che era andata a insinuarsi nell'animo del minore.

Erano passati cinque anni dal loro ultimo incontro e Chuutarou, allora solo un bambino, aveva passato mesi nei boschi alla ricerca di un segno della presenza di quell'uomo.

I suoi sforzi si erano rivelati vani, e crescendo si era dato dello stupido per aver seriamente sperato di potergli donare una ‘seconda possibilità’.

“Complimenti per esserti comportato come un moccioso ingenuo”, si era spesso rimproverato prima di riuscire a prendere la decisione di abbandonare definitivamente il ricordo di Kagami e di andare avanti con la sua vita.

Era stato difficile riuscire a seguire quella sua stessa presa di posizione, perché anche a distanza di mesi aveva continuato a sentirsi sconfitto da quella situazione, e nel modo più crudele di tutti il destino si era intromesso nella sua vita proprio quando Chuutarou aveva creduto di aver dimenticato quell’uomo per davvero.

Gli era infatti bastato sentirne il nome per permettere nella sua mente di far riaffiorare ricordi, sensazioni e rimpianti. E il suo corpo aveva agito di conseguenza, senza neanche lasciargli il tempo di ragionare.

Aveva lasciato il Tempio di corsa e, ignorando i richiami preoccupati dei suoi fratelli, si era lanciato sulla lungo scalinata che lo avrebbe portato al molo.

Rallentò quando i suoi occhi scorsero i soldati e il loro prigioniero, arrestando poi definitivamente la sua corsa a pochi scalini dalla sua meta.

Kagami sorrideva beffardo nonostante la situazione e Chuutarou non poté non pensare un: “Non è cambiato per niente”.

Si scambiarono uno sguardo che al più giovane sembrò durare quasi un'eternità ma che, in fin dei conti, durò solo pochi attimi. Necessari tuttavia a far vacillare quasi impercettibile l’espressione sarcastica del prigioniero.

«Chuutarou-dono», lo salutarono le guardie, ma al contrario delle altre volte, il ragazzo non rispose con lo sorriso, né si offrì di traghettare lui stesso il condannato alla prigione.

Rimase immobile a fissare Kagami. Avrebbe voluto dirgli tante cose, magari anche insultarlo per essersene andato in quel modo, ma sentiva la lingua attaccata al palato, la gola secca…

«Qualche problema?», gli chiesero gli uomini e il giovane Kumou poté solo scuotere il capo.

Si scambiarono ancora un’occhiata lui e Kagami, il quale distolse lo sguardo solo quando fu costretto a mettere piede sulla barca.

Chuutarou restò immobile osservando l’imbarcazione scivolare via sulle acque scure del Lago, cadendo poi seduto sugli scalini quando la vide sparire alla sua vista.

Nascose il volto tra le mani, emettendo che venne soffocato dai suoi palmi.

Non è neanche riuscito a dirgli addio.




Chuutarou si rigirò nel futon, incapace di chiudere occhio. Erano ore che si muoveva come un’anima in pena senza riuscire ad allontanare il volto di Kagami.

Doveva metterci una pietra sopra. Era tutto finito ormai. Eppure non riusciva a smettere di pensare a lui.

“Era sciupato… forse non ha fatto un pasto decente per mesi”, si disse nervoso, costringendosi seduto sul futon, permettendo poi ad altri pensieri simili a quello di insinuarsi nel suo petto.

“È quello il suo posto”, si ribellò infatti una seconda vocina, che tuttavia venne subito messa a tacere da un’altra, più forte e sicura.

“Gli avevo promesso una vita diversa”.

Era solo un bambino al tempo e il frangente nel quale si trovavano era delicato oltre che tragico, ma in cuor suo Chuutarou sapeva che avrebbe fatto di tutto pur di mantenere la sua promessa. Era una questione non solo di orgoglio ma anche di onore, perché Kagami gli aveva salvato la vita e gli aveva dato degli insegnamenti importanti nonostante tutto.

Si mordicchiò il labbro inferiore, passandosi una mano tra i capelli. Alla fin fine quella situazione si poteva riassumere in due unici concetti: cercare di aiutare Kagami o lasciar correre e riprendere la sua vita come se non fosse accaduto niente.

Sicuramente sarebbe stato molto più facile ignorare quanto era accaduto, ma in realtà se si trovava ancora lì a rimuginare su come comportarsi, la risposta non doveva essere poi così semplice da trovare - o da accettare.

Doveva quindi aiutare Kagami? Da bambino era stato un ingenuo a fargli quella promessa così a cuor leggero, perché non aveva pensato alla legge. L’uomo era ricercato e un assassino, e nessuno sano di mente gli avrebbe mai potuto dare la grazia. Certo, lui avrebbe testimoniato in favore di Kagami, ma non era certo che quest’ultimo sarebbe stato ben disposto a chiedere perdono per i suoi crimini.

Sospirò e si lanciò all’indietro sul futon, stendendo le braccia in una posizione di resa totale. Il finale sembrava già segnato qualsiasi fosse stata la sua decisione, perché alla fine nessuno avrebbe mai dato una seconda possibilità a Kagami.

“Nessuno a parte me”, precisò prontamente.

Il fatto di essere pronto a battersi per quell’apparente causa persa lo avrebbe aiutato a superare quel conflitto interiore? Non poteva saperlo, però non poteva non pensare al fatto che si trattava di fare la cosa giusta.

Per cinque anni non aveva più sentito parlare di Kagami, segno che l’uomo aveva effettivamente smesso di uccidere, e ancor prima di questi anni la sua stessa vita era stata salvata da una persona che invece era solita fare il contrario.

Un assassino che salvava vite. Non aveva senso, eppure era successo.

Chiuse gli occhi emettendo un altro lungo sospiro. Poteva continuare a disquisire mentalmente sui pro e sui contro di quella situazione ma alla fine già sapeva di aver preso la sua decisione.

Avrebbe fatto in modo di aiutare il più possibile Kagami perché gli aveva fatto una promessa che non era pronto a rimangiarsi.

Lucido e forte di quella sua presa di posizione, Chuutarou riuscì finalmente a prendere sonno e l’indomani mattina, ancor più deciso, seguì Soramaru per incontrare Sousei, l’unico in grado di dargli l’autorizzazione per incontrare Kagami e per cercare di trovare una soluzione che permettesse all’uomo una sorta di reintegro nella società.

Si aspettava di venire rifiutato - e così infatti accadde - ma non voleva arrendersi senza prima combattere.

Sbatté quindi le mani sulla scrivania del Capitano della Yamainu, con un’espressione seria e risoluta in volto, pronto ad argomentare ogni sua scelta.

«Gli devo la vita. Ho un debito verso di lui. Questo non lo possiamo ignorare», dichiarò, cercando sia di apparire risoluto che di ignorare lo sconcerto di Soramaru, sconvolto dalle sue ricerche.

«È un pericoloso criminale», rispose Sousei con tono serio, non sembrava voler accettare altre richieste, ma era anche consapevole di avere davanti uno dei fratelli Kumou… e sapeva per esperienza quanto fosse complicato farli ragionare.

«Non ha ucciso nessuno per cinque anni! Da quando ci siamo incontrati. Kagami è cambiato, lo so per certo», argomentò ancora Chuutarou, azzardandosi poi ad aggiungere un: «Posso controllarlo».

Non era certo che ne sarebbe stato in grado, ma di certo ci avrebbe provato.

«Quello che ci chiedi è impossibile», sospirò l'altro uomo.

«Oltre che assolutamente folle!», rincarò Soramaru, ancora incredulo per quelle che per lui erano richieste assurde.

«Non lo è», mormorò Chuutarou scuotendo il capo, «so per questo che non è più lo stesso. Io al contrario vostro l’ho conosciuto, ho visto che persona è… e oltre l’assassino c’è molto di più...»

«Il tuo metro di giudizio era offuscato da Tenka», lo bloccò Sousei, «voi Kumou avete la pericolosa tendenza a vedere del buono in tutti», aggiunse prendendo dei fogli dalla sua scrivania. Era un chiaro segno di chiusura di quel discorso, e quello spinse Chuutarou a pensare rapidamente.

«Voglio vederlo», riprese infatti trovando l’unica soluzione fattibile in quella situazione che rischiava di rivelarsi un totale fallimento, «questo non potete negarmelo...»

Guardò prima Soramaru e poi Sousei, dando a quella sua ultima affermazione un peso ben chiaro. Era una silenziosa promessa che se solo avessero osato impedirgli di andare da Kagami, lui ci sarebbe andato anche da solo e senza autorizzazione.

I due più grandi si scambiarono un’occhiata consapevole e Chuutarou comprese di aver vinto almeno quella battaglia.





La prigione non era cambiata granché dal suo ultimo e breve soggiorno. La struttura era rimasta pressoché la stessa anche dopo la ristrutturazione successiva all’evasione di massa e alla fin fine si poteva dire che l’unica grande differenza era l’assenza della morsa del Clan Fuuma.

Forse, aveva notato Kagami, anche i soldati erano un po’ cambiati. Sembravano molto più attenti e feroci con i detenuti, soprattutto verso quelli incarcerati nel braccio nel quale lui stesso era stato rinchiuso: quello di massima sicurezza.

“Sono un’ospite speciale, d’altro canto”, pensò ironicamente mentre entrava nella sua cella. Un semplice buco quadrato, che per arredamento aveva solamente una branda e una latrina. Probabilmente era stata progettata per ospitare più di un detenuto, ma Kagami sapeva che non sarebbe arrivato nessun'altro lì e che lo spazio lasciato apparentemente spoglio dalla seconda branda sarebbe rimasto vuoto.

Volevano tenerlo in una sorta di isolamento, e non poteva dar loro torto.

Kagami, in ogni caso, non aveva commentato la sua nuova e spartana dimora ma, senza smettere di ghignare, si era semplicemente accomodato per terra, appoggiando il capo e la schiena al muro. L’unico fastidio era la camicia di forza che gli avevano fatto indossare per impedirgli di utilizzare le mani - un’accortezza pressoché inutile visto che lo avevano privato della sua Dodomeki. Inoltre, aveva anche notato una sorta di maligno divertimento nelle guardie la soddisfazione di averlo finalmente in pugno… e d'altro canto, Kagami, non poteva che dar loro ragione.

Era un combattente esperto e un assassino, eppure si era lasciato catturare fin troppo facilmente. Non tanto per una vera e propria distrazione o resa volontaria, ma a causa della sua debolezza fisica.

Provava quasi vergogna al solo pensiero di non avere neanche la forza di combattere o di cacciare, ma da quando i più ricchi avevano smesso di cercare i suoi servizi come mercenario, anche le sue finanze si erano lentamente esaurite. Avrebbe potuto fare qualche ricerca, indagare su chi potesse aver bisogno di qualche omicidio, ma lui stesso si era ritrovato a non voler neanche più cercare il sangue. Il tutto a causa degli avvenimenti che lo avevano coinvolto l’ultima volta che era stato a Shiga.

Non che fosse importante, era in grado di cacciare e aveva vissuto come un senzatetto per gran parte della sua vita, ma gli inverni erano duri e complicati per chiunque… ed era stato trovato proprio a causa delle sue pessime condizioni fisiche e, infine, catturato.

Era ovviamente frustrato, ma qualcosa in lui gli aveva impedito di lasciarsi andare del tutto alle rabbia. Qualcosa che per tutti quegli anni aveva volutamente ignorato con veemenza e orgoglio… e che si era materializzato nella sua mente con il volto maturo di Chuutarou.

Era cresciuto, ma lo avrebbe riconosciuto sempre e comunque. Per lui, quel moccioso, era impossibile da dimenticare.

Sinceramente, per quanto volesse negarlo, Chuutarou era l’unico ricordo piacevole di tutta la sua vita. Quel ragazzino gli aveva dato fiducia, credendo in lui e facendogli suo malgrado intraprendere una vita senza vendetta.

Tuttavia, per quanto piacevole, non poteva neanche non associarlo al rimpianto di ciò che avrebbe potuto avere se solo le sue mani non fossero state così sporche di sangue. L’avrebbe voluto conoscere prima, essere più giovane di almeno vent’anni, perché trovava semplice credere che tutta la sua vita sarebbe stata diversa accanto a Chuutarou.

Era un sogno tanto bello quanto triste, il primo della sua esistenza caratterizzata solamente da numerosi incubi.

Sorrise tra sé e sé, pur essendo incarcerato sentiva libero, almeno nei pensieri… che sarebbero stati i suoi unici compagni fino alla fine dei suoi giorni.

Chiuse gli occhi, rilassandosi ed ascoltando con le orecchie ben tese tutti i rumori di quella prigione. Sentiva i lamenti di altri detenuti, un brusio che poteva essere un fitto chiacchiericcio e talvolta anche i passi delle guardie che facevano la ronda fuori dalle celle.

Fu proprio quello il suono che attirò la sua attenzione: dei passi. Non si trattava di una sola guardia ma di un gruppetto dato il rumore non regolare che emettevano gli stivali sul pavimento in pietra. Aggrottò la fronte per qualche istante, soprattutto quando quei passi si arrestarono fuori dalla sua cella. Sentì anche il leggero tintinnare di una chiave e il sordo e cupo rumore della serratura che veniva aperta, il tutto seguito infine dal rumore della chiave nella serratura e dall'ingresso di alcuni soldati.

Li guardò uno ad uno senza mostrare un particolare interesse. Erano cinque uomini adulti e erano armati, indossavano le loro divise di ordinanza e sembrano da una parte preoccupati e dall’altra quasi in fremente attesa.

Era una visita inaspettata, ma Kagami non permise al suo volto di assumere qualsivoglia espressione sorpresa, anzi: rivolse loro il suo solito ghigno beffardo, pronto a sfidarli come sempre.

«Takao fai il palo», ordinò frettolosamente uno dei soldati.

«Andiamo, a che vuoi che serva? Nessuno verrà qui. Non importa a nessuno di questo rifiuto», ribatté un altro con tono sprezzante, facendo ridere i suoi compagni.

Chiusero la porta della cella alle loro spalle accerchiando lentamente Kagami, rimasto ancora pacificamente seduto per terra.

«Non aspettavo visite», dichiarò mostrandosi divertito, anche se il suo corpo si stava già inconsciamente preparando ad un attacco da parte dei soldati.

C’era solamente una possibile spiegazione per la loro presenza nella cella, e quella sua sicurezza venne confermata da un violento calcio che andò a colpirlo in pieno viso.

Non aveva possibilità di difesa, sia per l'ancora presente penso di debolezza che per la camicia di forza che limitava ogni suo movimento.

La botta fu tale da farlo cadere di lato, con la testa dolorante e pulsante per la botta appena ricevuta - vi era una differenza sostanziale tra l’avere la certezza che quel gesto sarebbe arrivato e il dolore che provò per il calcio.
«Che illuso. Credevi per davvero che non sarebbe venuto nessuno per fartela pagare?», riprese uno dei soldati, sarcastico, «Hai ucciso le nostre famiglie e quelle di tanti altri! Sarebbe troppo semplice farti attendere la tua morte in cella. Non te lo meriti!», insistette ricevendo un verso di approvazione dagli altri.

Erano mossi ovviamente dalla vendetta, un sentimento che Kagami conosceva fin troppo bene.

Rimase coricato per terra, ma rivolse loro un altro sorriso ironico. Volevano piegarlo e distruggerlo, e lui avrebbe fatto di tutto pur di rendere quel loro intento impossibile.
«Ah sì? Vorrei vedervi provare», ghignò spavaldo, affrontando a muso duro il suo destino. Era preparato ad una simile evenienza e non aveva paura di venire picchiato fino a perdere i sensi, non sarebbe stata la prima volta d'altro canto.
Ciò che lo sorprese fu tuttavia il ghigno che si dipinse sul volto dei soldati ed emise un sibilo infastidito quando la mano di uno di quelli si strinse attorno alla sua gola. Gli mancò il fiato e, istintivamente, cercò di liberarsi senza però grandi risultati dato il peso dell’altro uomo sul suo corpo. Per un momento, senza neanche volerlo, un lampo di terrore all’idea di morire in quel modo, attraversò i suoi occhi sgranati e quella sua reazione sembrò far ridere non poco i soldati.

«Il ‘grande Kagami’ ha paura?», ironizzò uno dei cinque «Scommetto che presto ci pregherai di ucciderti», aggiunse e il tono di malizia fece suonare una sorta di campanello d’allarme in Kagami che, annaspando alla ricerca d’aria, riuscì in qualche modo a liberarsi dalla presa del soldato.
Tossì e cercò al tempo stesso di riprendere a respirare, senza però dargli tregua venne subito colpito da un calcio sullo stomaco che gli mozzò di nuovo il respiro. Era abituato alle botte e quello non lo impensieriva più di tanto, a preoccuparlo erano le risatine di quegli uomini e gli sguardi di malizia e di scherno che gli stavano rivolgendo. L’affermazione di poco prima lo aveva fatto quasi agitare - il suo istinto lo portava a reagire prontamente ad ogni pericolo - e quando venne costretto con il petto per terra, comprese suo malgrado le reali intenzioni di quegli uomini.
Non era mai stato il soggetto di simili ‘azioni’, ma sapeva suo malgrado che non erano poi così rare in quel braccio della prigione. Era il modo di quei soldati di imporre il loro potere su chi, quando era in libertà, incuteva terrore e morte.

Li aveva sentiti talvolta parlare del ‘bilanciamento del mondo’ e, sinceramente, lo aveva disgustato quel modo di ragionare. Lui poteva essere un assassino, ma la sua crudeltà non era mai sfociata nella violenza sessuale.
Si dimenò allora con ancora più forza, ma data l’impossibilità di usare le braccia non riuscì a scrollarsi di dosso il suo carceriere che, aiutato dai suoi compagni, riuscì anche a bloccargli le gambe.

Gli venne sbattuta la testa in terra per stordirlo, e nonostante il dolore e il sapore del sangue in bocca, Kagami continuò a combattere, rendendo vani i tentativi di tenerlo fermo dei soldati.

Li sentì sibilare per la rabbia e la frustrazione, e anche se sarebbe stato bello spingerli alla resa in quel modo, lui era ben consapevole che non sarebbe accaduto e che il peggio non era ancora iniziato.

«Rompigli le gambe», suggerì uno, con la voce colma di fatica, «a chi vuoi che importi? Tanto da qui non deve mica uscire».

«Ottima idea», esclamò un'altra voce e, come se non avessero aspettato altro, iniziarono a colpire la sua gamba sinistra dapprima con dei calci e poi con il fodero delle loro spade.

Il sangue andò presto a imbrattare la sua divisa chiara e per quanto Kagami stesse cercando di trattenersi, non poté non urlare per il dolore quando sentì l’osso spezzarsi.

Il dolore lo portò a immobilizzarsi, ogni singolo movimento gli causava ulteriore dolore e, boccheggiando, cercò di non perdere la testa. Aveva subito di peggio, cercò di ragionare, e soprattutto non poteva dare quella soddisfazione ai suoi carcerieri. Tuttavia non riuscì a trattenere un alto lamento quando uno dei soldati gli abbassò violentemente i pantaloni, senza alcuna cura per la gamba ferita.

«Guardalo. Si è calmato», risero, e Kagami strinse con forza i denti contro le labbra fino a farle sanguinare. Il dolore era tanto - troppo -, ma il suo orgoglio gli impediva di arrendersi.

Non voleva dare loro la soddisfazione di vederlo spaventato o in preda alla sofferenza, tuttavia anche se riuscì a trattenersi dal lamentarsi quando lo costrinsero a quattro zampe, non fu in grado di bloccarsi dall’emettere un gemito quando uno dei soldati lo penetrò senza alcuna preparazione.

Ansimó, tremando violentemente sia per quell'intrusione sia per la gamba, sollecitata dal peso del soldato. Vide per qualche attimo rosso, ma ancora una volta fu il suo orgoglio a cercare di proteggerlo. Tentò infatti di non emettere neanche un fiato, ma ad ogni nuova spinta il dolore aumenta e Kagami non sapeva come fermarlo né come farlo finire.

L'uomo continuò a muoversi gemendo e commentando quella violenza con luride frasi che, tra il dolore, riuscirono anche a nauseare Kagami.

«Ti sta piacendo? Eh?», lo stuzzicò un altro del gruppo, «In fondo sei abituato alla violenza. È il tuo pane quotidiano».

Come era ovvio, Kagami non rispose. Continuó invece a cercare di trattenere i versi che, nonostante gli sforzi, avevano iniziato ugualmente a lasciare le sue labbra martoriate dai denti.

Voleva che finisse presto, ma dopo quel soldato anche gli altri avrebbero reclamato il loro turno. Quel pensiero sembrò intaccare il suo orgoglio facendogli sentire un moto di terrore.

Cosa ne sarebbe rimasto di lui quando avrebbero finito?

Pezzo dopo pezzo, Kagami si stava sgretolando, e non poté non pensare al fatto che sarebbe stato meglio morire.

Non era un pensiero ‘da lui’, ma che motivo aveva di vivere? Uccidere era sempre stata la sua unica ragione di vita, la sua protezione e in quella prigione era stato privato di quell'unica difesa. Era rimasto senza alcun riparo e quei soldati, alla ricerca di vendetta, lo stavano umiliando, trattandolo come un giocattolo.

Godevano nel vedere un assassino del suo calibro gemere per il dolore e sanguinare. Godevano nel sapere di avere quel potere su di lui.

Per Kagami, la morte, sembrava davvero l'unica soluzione. L’unica via di fuga da quella vita che era sempre stata crudele con lui.

Neanche si rese conto di aver smesso di trattenere i suoi lamenti né che il suo corpo, sollecitato fisicamente nonostante la ferita pulsante alla gamba, aveva iniziato a reagire.

Lo chiamarono ‘puttana’ e risero della sua erezione.

«Se ce lo chiedi gentilmente potremo anche lasciarti venire, non siamo dei bastardi senza cuore come te».

Kagami però non rispose, la sua bocca era piena del sapore ferroso del sangue e di versi di dolore che diventavano rantoli ad ogni nuova spinta che faceva spostare il peso sulla sua gamba ferita.

L’orgasmo del soldato giunse dopo un po’ e, senza un attimo di tregua, Kagami venne fatto rigirare sulla schiena e una nuova erezione si fece spazio all’interno del suo corpo già abusato.

Sì lamentò chiudendo gli occhi con forza, sperando che il sangue nella sua bocca potesse soffocarlo e frasi finire tutto.

Forse, si disse, si sarebbe dovuto strappare via la lingua a morsi per assicurarsi quel risultato.

Considerò per davvero quella soluzione, perché ormai lo nauseava anche solo pensare a ciò che neanche un'ora prima aveva considerato ‘un bel pensiero’. Chuutarou e la sua genuina fiducia nel buono di tutte le persone, lui compreso.

Il viso del moccioso apparve nella sua mente e, al contrario di tutte le altre volte non provó né irritazione né tantomeno sollievo. Rimase indifferente, perché neanche Chuutarou poteva fare qualcosa in quella situazione.

Inoltre, perché avrebbe dovuto? Non era più un bambino, perché un adolescente si sarebbe dovuto prendere la briga di accollarsi il peso di un essere spezzato come lui.

Se solo la sua bocca non fosse stata piena di gemiti di dolore, Kagami si sarebbe quasi messo a ridere. Non di gioia, sarebbe stata invece una risata carica di rancore, perché quei bastardi erano riusciti a portargli via l'unica cosa buona che era mai riuscito a riconoscere.

A quel punto poteva solamente lasciarsi andare, ed era davvero pronto a mordersi via la lingua. Tuttavia, la porta della cella venne aperta all'improvviso. Kagami quasi non lo notò, ma gli parve ugualmente di vedere proprio Chuutarou. Il volto del giovane era terrorizzato, e per quello l'uomo quasi pensò di essere davanti ad una allucinazione.

Non aveva senso la sua presenza in quella prigione, men che meno nella sua cella. Inoltre quell'espressione non poteva assolutamente essere rivolta a lui.

Era solo uno scherzo della sua mente che, in quel momento di disperazione e dolore, aveva scelto di mostrargli proprio quel ragazzino.

«Kagami!», si sentì chiamare dalla voce più matura di Chuutarou, ma il dolore e la confusione avevano ormai annebbiato i suoi sensi, rendendogli quasi impossibile capire cosa fosse reale e cosa no.

Forse è davvero giunta la mia ora”, pensò sarcastico, perché per quel che ne sapeva poteva anche essere impazzito. Non aveva altre spiegazioni per la presenza lì del giovane, e chiudendo di nuovo gli occhi - forse un po’ rassicurato dalla sola vista di Chuutaru -, si sentì pronto ad affrontare il suo destino.





Quando Kagami perse i sensi, Chuutarou non poté non gridare ancora il suo nome, richiamandolo con urgenza e terrore, senza ovviamente ottenere risposta. 

Fu quasi tentato dallo scuoterlo, ma il viso insanguinato e pesto dell’uomo, insieme alle condizioni della gamba e di tutto il resto, gli impedirono di compiere qualsiasi azione avventata.

Si sentiva quasi paralizzato. Incapace di credere a ciò che aveva assistito in quei pochi secondi dal suo ingresso nella cella. Fino a poco prima, mentre percorreva rapido i corridoi della prigione, si sentiva ansioso alla sola idea di incontrare di nuovo l’uomo. Non sapeva cosa gli avrebbe potuto dire né quale sarebbe stata la sua reazione - cosa che avrebbe più o meno segnato i loro possibili incontri futuri, vista la presenza sia di Soramaru che di Sousei -, ma era lì e quello gli bastava.

Aveva ignorato le urla, gli insulti e le suppliche degli altri carcerati, con il solo scopo di raggiungere al più presto possibile Kagami. E se solo fosse stato un po’ più veloce, forse tutto quello non sarebbe accaduto.

Nelle orecchie risuonavano ancora i lamenti di Kagami, le risate e i gemiti di quegli esseri che non avevano neanche il diritto di chiamarsi “umani”. Chuutarou aveva sempre rifiutato anche solo l'idea di uccidere qualcuno, ma in quel momento sentiva la rabbia montargli in petto. Kagami era un assassino ma non si meritava quello che gli era successo, nessuno meritava una punizione simile.

“La morte sarebbe stata migliore…”, pensò mordendosi le labbra.

«Non può sentirti… h-ha perso i sensi», mormorò Soramaru rompendo il silenzio e costringendo il minore ad alzare lo sguardo, «ed ha bisogno di urgenti cure mediche», proseguì cercando poi l’approvazione nello sguardo di Sousei. Quest’ultimo, in un impeto di rabbia e disgusto, aveva attaccato e steso quei soldati che non erano stati ovviamente in grado né di scappare né di difendersi da quelle che sarebbero state delle pesanti accuse.

Chuutarou registrò lentamente quelle parole poi annuì e, senza esitare o attendere risposta, si tolse la giacca per coprire come meglio poteva il corpo privo di sensi di Kagami, per poi sollevarlo con cura, cercando di non causargli ulteriore dolore.

«Lo porto via», dichiarò e, con sguardo risoluto, marciò fuori dalla cella per poter raggiungere l’infermeria della prigione che gli venne indicata da uno dei soldati accorsi lì per ordine di Sousei.

Il giovane aveva uno sguardo spaventato, ma quello non aiuto Chuutarou a calmarsi né gli impedì di soccargli uno sguardo di puro odio - per quel che gli riguardava tutti in quella prigione erano colpevoli.

Nella stessa infermeria si rifiutò di lasciare solo Kagami, fissando con intensità il medico che, pur rimanendo spiazzato, comprese sin da subito quanto era appena accaduto al prigioniero e non fece domande.

Forse, pensò acidamente Chuutarou, non era la prima volta che accadeva ed era una prassi normale in quel luogo.

Quel pensiero lo fece rabbrividire. Come potevano le autorità permettere una cosa simile? I prigionieri erano assassini e altri criminali che avevano compiuto atti violenti e contro l’umanità, ma ripagarli con altrettanta crudeltà non rendeva le persone meno colpevoli.

Attese in silenzio, torturandosi le labbra, e quando venne raggiunto da Soramaru e Sousei li accolse con un deciso: «Kagami viene via con me». 

Non avrebbe accettato repliche o rifiuti. Non poteva lasciarlo lì da solo a superare quanto gli era appena accaduto. Kagami era inoltre un uomo orgoglioso e… quell’umiliazione lo avrebbe sicuramente distrutto.

Cercarono ovviamente di farlo ragionare, ma Chuutarou si dimostrò irremovibile.

«Mi ha salvato la vita e ora spetta a me farlo. Merita di morire per tutto il male che ha causato, lo so. Ma non lo farà a causa di quei… mostri», dichiarò esponendo le sue ragioni aggiungendo poi un serio: «Impedendomi di ripagare il mio debito… mi costringerete ad agire di conseguenza».

Le discussioni di protrassero a lungo e, alla fine, Chuutarou, riuscì ad averla vinta. Ovviamente non senza alcune imposizioni da parte di Soramaru e Sousei. Accettarono di far trasportare Kagami al Tempio, ma lì sarebbe dovuto rimanere sotto stretta osservazione dei membri dello Yamainu. Per Chuutarou era una vittoria ma che non accolse con gioia, ma solo con sollievo.

Ancora non sapeva come sarebbe stato in grado di gestire il risveglio di Kagami né come aiutarlo ad affrontare le conseguenze della violenza subita.


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