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Fandom: Kuroko no Basket

Personaggi: Kise Ryouta, Aomine Daiki

Rating: SFW

Parole: 2780

Prompt: Fandom!AU [Hunger Games!AU] 

Note:

  1. Il tutto con un pizzico di soulmates!au che non guasta mai
  2. Probabilmente sono OOC. E sicuramente piena di errori. Gli errori verranno corretti post cowt XD per l'ooc... me lo tengo ù_ù

Kise Ryouta sapeva che non sarebbe mai arrivato tanto lontano negli Hunger Games senza il suo aspetto avvenente e il carattere solare e piacevole. Era stato il suo mentore, Takeuchi, a suggerirgli di basare la sua intera esperienza in quei giochi su quel suo dono naturale, e Ryouta lo aveva fatto.

Aveva regalato sorrisi, ammiccato alle telecamere e rivelato sogni, più o meno reali, durante le sue interviste.

«Vorrei vincere gli Hunger Games perché non ho ancora trovato la mia anima gemella», aveva detto infatti una volta davanti alle telecamere, assumendo un'espressione triste e portando una mano al petto come per enfatizzare le sue parole. E quella recita, aveva fortunatamente funzionato, perché da quando era iniziata quella terribile gara, aveva ricevuto regali su regali dagli sponsor che era riuscito a guadagnarsi con quelle sue moine.

Coperte termiche, cibo, medicine e tanto altro, che lo avevano aiutato a salvarsi più volte mentre gli altri ragazzi si uccidevano tra di loro.

La sua tattica inizialmente prevedeva anche la presenza di Aiko, un'altra ragazza del suo stesso distretto, ma era stata tra le prime a morire. In ogni caso alla fine non era cambiato granché della sua strategia perché avrebbe in ogni caso limitato gli incontri con gli altri distretti al minimo indispensabile - perché li aveva visti, e alcuni erano delle bestie che lo avrebbero ucciso anche a mani nude se solo avessero voluto. Solo alla fine, quando si sarebbe ritrovato solo con l'ultimo dei tributi, avrebbe cercato di uscirne per davvero vincitore.

Quel piano, tuttavia, si rivelò infruttuoso a soli tre giorni dall'inizio dei giochi, perché come era ovvio tutti gli altri tributi si erano resi conto della sua notorietà e i regali che riceveva facevano gola ed ogni singola persona all'interno di quell'arena artificiale.

Era stato trovato nel suo nascondiglio da una coppia di ragazzi, e la fuga gli era sembrata l'unica soluzione praticabile. Il panico non lo avrebbe aiutato a sopravvivere, e sapeva di dover combattere, ma in quell'istante l'idea di uccidere un suo coetaneo lo nauseava - cosa che doveva superare se desiderava vincere e tornare per davvero a casa.

Anche la sua fuga, tuttavia, non durò a lungo e venne raggiunto subito da quei due ragazzi che avevano deciso di dargli la caccia. Si ritrovò accerchiato, tremante, con un pugnale in mano che non era certo di saper usare.

Inspirò ed espirò più volte, cercando di calmarsi e di ricordare ciò che aveva imparato e memorizzato nel breve addestramento prima dei giochi. Aveva un'ottima memoria visiva e fisica, e sapeva di potersi adattare rapidamente alla situazione ma il suo cervello sembrava non volerla pensare allo stesso modo.

I suoi movimenti, infatti, si mostrarono sin da subito meccanici e legati, probabilmente divertenti agli occhi di quei due che erano di sicuro più abituati al combattimento e alla morte.

Venne disarmato facilmente, ma come una doccia fredda tutte le sue paure e timori si allontanarono in un solo istante lasciando emergere l'istinto di sopravvivenza. Anche senza armi era pronto a combattere, era pronto a tutto pur di vivere ancora un altro giorno. Probabilmente quell'impulso si era destato troppo tardi, ma non si sarebbe arreso.

Sfruttò sin da subito la sua velocità e recuperando il pugnale che era stato sbalzato qualche metro più in là, lo lanciò contro uno dei tributi. Lo ferì al braccio, ma non cantò vittoria infatti scattò subito in avanti, colpendo con una spallata il secondo ragazzo facendolo capitolare per terra.

Li aveva colti di sorpresa, ma non doveva abbassare la guardia. Cercò di recuperare il pugnale, allontanando furiosamente il pensiero di "morte" che si affacciò nella sua mente come via di fuga. Non voleva uccidere ma voleva sopravvivere, erano quelli gli Hunger Games.

Ciò che tuttavia accadde nei minuti successivi, lo lasciò letteralmente senza parole. Aveva esitato al pensiero di uccidere quei due tributi e quell'incertezza era stata colta al balzo da uno dei due ragazzi. Si era reso conto del piccolo coltellino a serramanico quando ormai stava per diventare "troppo tardi", sapeva che sarebbe stato colpito alla gamba. Una ferita in quel luogo sarebbe risultata invalidante oltre che impossibile da trattare, emorragie e infezioni erano tra le cause principali di morte agli Hunger Games. 

Il colpo però non arrivò mai perché venne preceduto da una lancia che si conficcò nel petto del tributo. 

Fu in quel momento ne apparve un terzo. Pelle scura ed espressione seria, vestito di nero. Era balzato fuori dagli alberi come una pantera e aveva ucciso quel ragazzo senza battere ciglio, per poi saltare addosso all'altro ancora troppo sorpreso per fare qualsiasi cosa. 

Kise stesso era rimasto come pietrificato, sconvolto a tal punto da non riuscire neanche ad afferrare ciò che il nuovo arrivato aveva detto all'altro tributo prima di ucciderlo.

Sembrava non essere un avversario da sottovalutare né si sarebbe soffermato a giocare con lui come avevano invece cercato di fare gli altri due. L'istinto gli suggerì di fuggire ma ancor prima di poter fare un passo verso la vegetazione, si sentí sbalzate contro un albero, venendo poi bloccato dal corpo dell'altro ragazzo.

Boccheggiò, faticando a respirare a causa del braccio del tributo che era andato a premersi sulla sua gola.

Non riuscì a nascondere il terrore che andò a riversarsi nei suoi occhi e dopo quello che gli aveva visto fare sapeva per certo che sarebbe stato inutile tentare di di certo pregare quel ragazzo. A quel punto niente gli avrebbe impedito di trovarsi con il suo stesso pugnale piantato in gola.

Doveva pensare rapidamente, ma l'aria che iniziava a mancargli gli stava rendendo difficile anche solo ragionare e collegare più di un concetto sensato.

Ciò che però sentì chiaramente fu un calore all'altezza del petto e un'improvvisa imprecazione, seguita dall'aria che tornò a riempirgli i polmoni. Tossì e cadde per terra, portandosi le mani al collo in un gesto istintivo.

«Che cazzo significa?», esclamò l'altro tributo, costringendo Kise ad alzare lo sguardo confuso verso di lui per capire cosa fosse effettivamente successo - o cosa lo avesse salvato almeno temporaneamente da morte certa.

Una luce. 

I suoi occhi vennero subito catturati da una luce, forte e calda - avrebbe anche osato definirla rassicurante -, che stava crescendo nel petto di quel tributo e, come notò subito dopo, anche nel suo.

Sgranò gli occhi, a sua volta incredulo.

«Non... cosa...», balbettò.

Capiva cosa stava accadendo, ma la realtà dei fatti era ben diversa, perché non poteva aver incontrato la sua anima gemella proprio lì agli Hunger Games. Ma quella luce parlava chiaro e quel tributo avversario era e sarebbe stato l'unico in grado di farlo sentire completo.

«Non ha senso...», esalò l'altro, con le braccia lungo i fianchi, prive di forza.

«No che non lo ha», confermò Kise, toccandosi il petto come per assicurarsi che quella luce fosse reale e non solo un illusione.

Si alzò in piedi, incerto su come reagire o rispondere a tutte le domande che gli si stavano affollando in mente. Furono delle voci, tuttavia, a interrompere quel momento di confusione e a metterli in agitazione.

«Andiamo. Qui non siamo al sicuro», dichiarò il ragazzo, riprendendosi dallo stupore per dare la precedenza al senso di sopravvivenza.

«Come?!», gracchiò Kise emettendo poi un verso quando l'altro lo prese per mano senza alcuna grazia per spronarlo a correre, lontano dagli altri tributi che li stavano per raggiungere.

Corsero per qualche minuto, schivando la flora di quell'arena e i vari ostacoli senza mai rivolgersi la parola, anche perché Ryouta aveva letteralmente il cervello in pappa a quel punto.

Aveva trovato la sua anima gemella e capire come si sarebbe dovuto comportare in quel momento sarebbe stato complicato, tant'è che arrivò addirittura a pensare un: "Takeuchi-sensei, che cosa devo fare?"

Avevano basato la sua strategia tutta su dei movimenti in solitaria, su un gioco di sfinimento per gli altri tributi... ma aveva trovato la sua anima gemella.

Più si ripeteva quella frase più quella situazione sembrava assumere una connotazione reale, allontanandosi dall'incredibile, e la luce che continuava a vibrare nei loro petti, attraversando i vestiti, ne era la prova.

La loro corsa si arrestò davanti ad una grotta e l'altro tributo, guardandosi attorno, lo spinse malamente verso l'interno.

«Entra e non fare storie!», esclamò con voce dura e nervosa.

«Non puoi darmi ordini!», ribatté istintivamente Kise, senza nascondere il suo stesso disagio. In un'altra situazione ci avrebbe pensato almeno centomila volte prima di controbattere, ma in quell'istante non era riuscito a farne a meno.

«Lì non ci sono microfoni, sibilò l'altro, forse per non farsi sentire dai osservatori dell'arena e Ryouta comprese: aveva trovato un posto nel quale calmarsi e discutere senza la presenza dell'occhio vigile degli organizzatori degli Hunger Games. Un perfetto punto cieco.

Annuì quindi e anche se una vocina nella sua testa, simile a quella del suo mentore, gli urlò dietro di non fidarsi, il suo istinto lo spinse invece ad entrare nella grotta.

Era fredda e vi erano evidenti segni di un precedente bivaccamento, forse quello era stato proprio il rifugio di quel tributo,che lo raggiunse qualche attimo dopo, torvo e ancora palesemente a disagio.

«Allora?»

«Allora cosa?», pigolò Kise, togliendosi lo zaino per stringerlo forte al petto come per nascondere la luce.

«Sei... la mia...», il giovane gesticolò con la mano, «tu sai cosa

«Anima gemella?», suggerì Ryouta, strappando un verso infastidito all'altro, come se quella parola fosse per luiquasi una parolaccia o una bestemmia.

«Eh».

Kise esitò, umettandosi le labbra e cercando una qualsiasi frase, anche di circostanza. Inutilmente, infatti la cosa più intelligente che riuscì a dire fu un: «Mi chiamo Ryouta. Kise Ryouta».

«Lo so», sbottò quell'altro, «tutti sanno chi sei. Il Bamboccio del Distretto Kaijo».

Non era nuovo a quel soprannome, era quella l'immagine che si era dovuto cucire addosso. Tuttavia non riuscì a non provare un vago senso di fastidio nel sentire quell'appellativo uscire proprio dalla bocca della sua anima gemella.

«A questo punto dovresti presentarti anche tu, no?», ritorse, cercando di allontanare quelle sensazioni.

«Aomine Daiki», mugugnò in risposta l'altro tributo e Kise ripeté mentalmente quel nome. Gli era ovviamente familiare perché lo aveva sentito nominare durante gli addestramenti. Era un tributo del Distretto Too, e Ryouta non aveva mai avuto a che fare con lui fino a quel momento - altrimenti tutto sarebbe stato diverso.

«Quindi... che facciamo?»

«E lo chiedi a me?», abbaió Aomine

Kise si accigliò.

«Sei tu che mi hai portato qui. Sei tu che non mi hai ucciso».

«Non posso ucciderti!», esclamò l'altro piccato, come se quella fosse una cosa ovvia, «Sarebbe come... uccidere me stesso», aggiunse poi con tono più basso e quasi imbarazzato.

«Ma dobbiamo...», commentò Kise, abbassando il capo.

Gli Hunger Games erano quelli in fondo: solo uno poteva uscire vincitore. Era però anche la prima volta che durante un'edizione due tributi si rivelavano essere anime gemelle, e Kise non sapeva se esistessero commi nel regolamento di Capitol City riguardanti quell'argomento.

Si morse le labbra e si sedette per terra, senza mai lasciare il suo zaino.

«Neanche io voglio ucciderti... non voglio uccidere nessuno in realtà», ammise.

«E come credevi di vincere?», ribatté Aomine, accomodandosi a sua volta, accettando in qualche modo quel momento di tregua che era venuto a crearsi.

«Lo avrei fatto... alla fine. Quello sarebbe stato uccidere per sopravvivere», spiegò, sentendosi uno stupido per aver pronunciato quelle parole.

«Qui tutti stiamo cercando di sopravvivere e di vincere», mormorò Aomine.

Kise assentì ancora.

«Questo però non cambia la situazione... sei la mia anima gemella ed è profondamente sbagliato ucciderci a vicenda…»

«Come se fosse possibile evitarlo…», ringhiò Aomine, passandosi una mano in viso, cercando di pulire il sangue dei tributi che aveva ucciso neanche qualche minuto prima. 

Anima gemella o meno il loro destino era già stato segnato dal momento in cui il loro nome era stato estratto durante la mietitura.

Sospirò, cercando poi di portare la mente più sull’immediato che sui problemi che avrebbero avuto in futuro. Intendeva vivere quegli Hunger Games giorno per giorno. Di certo, si disse, nel riguardare gli highlight della giornata le sue fans sarebbero letteralmente impazzite, e quel pensiero riuscì addirittura a strappargli una bassa risata.

«Che cosa c'è da ridere, eh?!»

«Nulla è che... immagino che le mie sostenitrici e la loro delusione nel sapere che ho trovato la mia anima gemella».

«Le tue… cosa?», domandò sorpreso Aomine, per poi riprendere con un esasperato: «Ah, vero. Sei l'idolo delle masse».

«Sì, senza di loro non sarei sopravvissuto neanche mezza giornata... sono onesto», ammise tranquillamente, lasciando che poi calasse il silenzio dopo quella sua affermazione.

I suoi pensieri corsero immancabilmente a immaginare tutto quello che si sarebbero detti gli sponsor e le persone che tifavano per lui e, sicuramente, anche a tutti i problemi che quella situazione avrebbe causato a Takeuchi.

Il riportare alla mente il suo sensei però lo fece sussultare. Se c'era un qualcuno che, in qualche modo, gli avrebbe potuto dare un consiglio, quello era sicuramente il suo mentore. Lo aveva sempre fatto in quei giorni di gioco, attraverso dei piccoli messaggi nascosti nei doni che gli venivano inviati.

Quindi sperò vivamente di ricevere un'altro dono da parte degli sponsor e con esso, magari, anche un messaggio da parte del suo mentore.

«C’è ancora una speranza», mormorò, «sono certo che Takeuchi-sensei saprà come comportarsi».

«Chi?»

«Il mio mentore. Mi ha consigliato lui come comportarmi in questi giorni. Dobbiamo solo aspettare che… mi invii qualcosa», spiegò, portando gli occhi verso il paesaggio all’esterno della grotta.

Aomine sbuffò.

«Non credo cambierà qualcosa… ma aspettare non può farci male».

Fortunatamente non dovettero attendere troppo per vedere planare non lontano dall’ingresso un piccolo paracadute con una scatolina ancor più minuta.

Kise fu il primo a scattare ed afferrando l’oggetto lo aprì rapidamente con mani tremanti. Si trattava di una pomata lenitiva ma lì per lì non vi diede troppo peso perché in quel pacchetto non vi erano foglietti attaccati, e la cosa lo mise un poco in agitazione.

Forse, cercò di rassicurarsi, quello era un dono per Aomine e non lui. Fece per rivolgersi all’altro ragazzo ma ancor prima di per aprire bocca, notò uno strano segno sulla confezione della pomata: un cuore. Sembrava essere stato disegnato in fretta e furia con una penna, probabilmente Takeuchi non aveva avuto tempo per preparare un messaggio più articolato… ma quello era di certo un suo messaggio.

Come avrebbe dovuto interpretarlo?

«Allora?», lo incalzò Aomine.

«Mi ha mandato una pomata lenitiva… e un cuore», rispose aggrottando le sopracciglia, «sei ferito da qualche parte?»

«Solo alcuni graffi», scrollò le spalle l’altro e Kise non trovare all’istante la risposta al suo precedente quesito.

Takeuchi voleva vederli recitare la parte degli innamorati. Erano anime gemelle e quello doveva aver stravolto i piani di tanti… ma anche fatto incuriosire gli spettatori.

«Dove?», gli chiese piegando le labbra in un sorrisetto.

«Che vuoi?», sbottò ostile l’altro, costringendo Ryouta ad una spiegazione che avrebbe voluto evitare.

«Gli spettatori vogliono vedere due anime gemelle», rispose serio, «questo è il messaggio del mio mentore».

Aomine si accigliò.

«No», rispose con tono perentorio e Kise non poté fare a meno di sospirare: sarebbe davvero stato difficile accontentare gli occhi e i desideri degli sponsor.

Decidette di non insistere, ma riuscì quanto meno a dividere con lui alcune delle sue riserve alimentari, sperando che almeno quello non fosse sfuggito alle telecamere.

Non parlarono granché ma insieme si portarono di nuovo sull’uscita della grotta quando iniziò il classico annuncio serale, con i volti dei tributi che avevano perso la vita in quella giornata. Nell'arena erano rimasti loro due e altri sei ragazzi, per un totale di otto partecipanti. Il gioco avrebbe presto iniziato a farsi duro e Kise sperava che il messaggio di Takeuchi non fosse solo un “fattelo amico, conquista i cuori delle persone e poi uccidil”.

«Annuncio», una voce metallica li fece sussultare, «regolamento degli Hunger Games. Articolo 120. Comma 2. Nel caso due anime gemelle si trovassero contrapposte come ultimo scontro, la giuria prenderà in considerazione di ritenerli entrambi vincitori. Felici Hunger Games e possa la fortuna essere sempre a vostro favore».

Kise boccheggiò e si voltò verso Aomine, a sua volta stranito e sorpreso da quella notizia.

«Possiamo ancora farcela, Aominecchi!», esclamò esaltato.

«E-ehi! Chi hai chiamato in quel modo!?», domandò l'altro, imbarazzato ma con una luce carica di speranza che andò a riflettersi in quello stesso bagliore che ancora vibrava nel loro petto.

Kise gli balzò addosso, abbracciandolo con trasporto e una risata. Aomine lo sostenne rigido e quando cercò di allontanarlo Ryouta si oppose, mugugnando un basso un: «Fallo per i fan e arriveremo fino alla fine, insieme. Te lo prometto, Aominecci».

Era quello l'obiettivo. Arrivare alla fine di quegli Hunger Games, e uscire da quella carneficina vivi e soprattutto insieme.


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